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Casella di testo: UNA VILLA NEOGOTICA SUL PALATINO
Roberta Bernabei

























All’inizio dell’Ottocento sul Palatino, oltre agli Orti Farnesiani, giardini dalla bellezza ormai mitica, sul versante che dà sul Circo Massimo, si trovata una delle ville più celebri e celebrate d’Europa, specialmente tra gli intellettuali e gli aristocratici dell’epoca, una bizzarria neogotica sorta tre le rovine del palazzo dei Cesari: Villa Mills. 
Sul Palatino, uno dei colli di Roma dove il mito della fondazione della città ha avuto luogo, dove si trovava la Roma Quadrata, il nucleo originario della città, l’imperatore Augusto, e poi tutti i suoi successori, aveva abitato in una residenza- santuario lussuosa, ingrandita e resa magnifica, in seguito, dagli imperatori della dinastia dei Flavi e poi dai Severi. Nell’Alto Medioevo sul colle, sulle rovine della residenza imperiale, un luogo ormai tranquillo e isolato, si stabilirono monaci greci, in seguito vennero edificate fortificazioni e poi vennero realizzati rigogliosi e pittoreschi orti e vigneti. Nell’ambito della riqualificazione rinascimentale del Palatino, sul versante del colle dove si trovava la cosiddetta Domus Augustana, all’inizio del Cinquecento una famiglia aristocratica, gli Stati, edificò una piccola villa affrescata utilizzando i resti architettonici della reggia imperiale. Il casino era dotato di una loggia sorretta da colonne di granito bigio e capitelli ionici antichi che era situata all’interno di un’aula romana che forse era stata una biblioteca del palazzo dei Cesari. La decorazione pittorica della volta della loggia, a grottesche e fregi, con festoni di alloro che incorniciavano figure allegoriche e i segni astrologici, secondo idee e motivi decorativi desunti dalla Domus Aurea, all’epoca appena scoperta, fu eseguita da Baldassarre Peruzzi, tra il 1519 e il 1520, mentre le pareti erano affrescate con soggetti di ispirazione raffaellesca da qualche esponente della scuola del divin pittore con temi mitologici relativi al mito di Venere secondo il racconto delle Metamorfosi di Ovidio.  Nel 1552 la villa fu acquistata da Paolo Mattei che la lasciò al nipote Asdrubale Mattei: molti degli antichi resti trovati durante i lavori realizzati nella villa palatina finirono come decorazione di uno dei più bei palazzi romani, il Palazzo Mattei di Giove vicino a Largo Argentina, dove soggiornò anche Giacomo Leopardi tra il novembre 1822 e l'aprile 1823, in quanto nipote della proprietaria, Marianna Mattei. I Mattei avevano acquistato anche una splendida proprietà su Celio, poi denominata Villa Celimontana.  
Il Casino Mattei sul Palatino era una splendida ed elegante costruzione circondata da un rigoglioso giardino all’italiana. Nel 1689 Donna Eugenia Spada, vedova Mattei, la vendette a Paolo Antonio di Ridolfo Spada, dopo altri proprietari la villa passò nel 1773 all’abate francese Paul Rancoureil che la volle esclusivamente pensando ai lucrosi affari che avrebbe potuto fare scavando sotto e accanto all’edificio, visto che sorgeva sul colle dove avevano abitato per secoli gli imperatori romani. Gli scavi, segretissimi,  iniziarono nel 1774 e durarono circa tre anni. L’abate era molto geloso della proprietà e dei suoi scavi e teneva tutti lontani proteggendo il sito la notte con cani mastini. 
Si narra che il povero Giovan Battista Piranesi che stava pubblicando raccolte di stampe sulla Roma antica per sbirciare le rovine da poco emerse tra quei cumuli di terra entrò una notte con un servitore e con del cibo per ammansire i temibili animali, disegnando quelle meraviglie al chiaro di luna, nel silenzio degli orti e dei giardini. In questo modo poté pubblicare due piante, il piano inferiore e il piano superiore, del Palazzo dei Cesari appena emerso dopo secoli di oblio. 
Nel 1818 compaiono sul Palatino, quali nuovi proprietari della villa rinascimentale due eleganti e colti amici britannici, Charles Mills e William Gell. Quel luogo di silenzio e bellezza divenne in breve tempo un piccolo cenacolo dove erano di casa intellettuali e aristocratici romani – come Madame Mère, ovvero Maria Letizia Ramolino, madre di Napoleone - e stranieri, specie inglesi, a Roma per il Grand Tour. La villa allora era composta da due edifici adiacenti circondati da rovine, da vigne e da un rigogliosissimo giardino di cipressi, gelsomini e roseti secondo un’armonia tipica del gusto romantico. Sir William Gell (1777-1836) era un uomo dotato di una notevole cultura antiquaria,  aveva pubblicato uno studio, che ebbe un successo enorme, su Pompei, un sito che aveva lungamente studiato e dove organizzava spesso celebri visite guidate per nobili in cerca di emozioni, tra cui anche lo scrittore e poeta romantico scozzese Walter Scott. 
Gell, disegnatore molto dotato, possedeva un senso dell’umorismo molto spiccato e organizzava nella villa celebri colazioni e dinner parties mozzafiato nel giardino che si affacciava sul Circo Massimo, intrattenendo gli ospiti parlando di Pompei e di città in rovina. Nella villa palatina Gell sistemò le sue cose, tra cui schizzi, mappe, libri rari e antichi, nella stanza del disegno, nella biblioteca, nello studio e nel museo. Durante il suo soggiorno romano pubblicò con Antonio Nibby un importante studio sulle mura di Roma (1820). Gell piantò e curò il giardino con grande gusto e competenza botanica, allestendo un pergolato di viti, piantando fiori e alberi da frutto. Nonostante il suo trasferimento a Napoli rimase legato tutta la vita alla villa palatina che ebbe da allora un unico proprietario: Sir Charles Andrew Mills (1760-1846). La famiglia di Mills aveva accumulato un’enorme fortuna con piantagioni di zucchero delle Indie Occidentali e lui, grazie alla passione per la storia, era divenuto famoso per un libro sulla storia delle Crociate che gli valse la nomina a Cavaliere dell’Ordine Militare di Malta. Mill una volta acquistata la villa palatina nel 1818 decise di trasformarla in un maniero neogotico, ispirandosi alla celebre e stravagante Villa di Strawberry Hill, presso Londra, costruita da William Robinson per lo scrittore Horace Walpole a partire dal 1749 in stile neogotico e considerata a pieno titolo il punto di partenza del Gothic Revival. Il colle Palatino vide quindi, dopo i fasti romani, una villa con arcate, finestre a sesto acuto, torri e merlature gotiche del tutto incongruente con il paesaggio circostante. 
Charles Mills adorava il giardino e lo curò con grande amore, coltivando una rosa particolare e bellissima che da lui prese il nome e continuando la tradizione delle cene tra i decori gotici, i ruderi, gli alti cipressi, il profumo dei gelsomini: una bellezza così intensa ed evocativa che colpì profondamente anche Lord Byron che compose versi pensando proprio a quel luogo stratificato, segno tangibile del trascorrere della storia e addolcito dal manto rassicurante di una natura florida e accogliente. 
Mills morì nella villa il 3 ottobre 1846 e fu seppellito nel suggestivo Cimitero Acattolico, all’ombra della Piramide Cestia. La villa venne demolita completamente a partire dal 1936 dall’archeologo Alfondo Bartoli, ben conscio del valore storico e culturale di quell’edificio neogotico arrampicato sul più celebre colle di Roma. Per ricordare la villa non rimangono che poche fotografie sbiadite, un’eco quasi muta di un fasto lontano. 





Casella di testo: Il potere dei simboli, un linguaggio per iniziati
Roberta Bernabei






















	  Ermete Trismegisto

“Oggi si sta comprendendo una cosa…ovvero che il simbolo, il mito, l’immagine appartengono alla sostanza della vita spirituale, che è possibile mascherarli, mutilarli, degradarli, ma che non li si estirperà mai…Le immagini, i simboli, i miti, non sono creazioni irresponsabili della psiche; essi rispondono a una necessità ed adempiono una funzione importante: mettere a nudo le modalità segrete dell’essere. Ne consegue che il loro studio ci permette di conoscere meglio l’uomo, quello che non è ancora sceso a patti con le condizioni della storia…questa parte astorica dell’essere umano porta, come una medaglia, l’impronta del ricordo di un’esistenza più ricca, più completa, quasi beatificata”. Questo brano di altissimo interesse è stato scritto da Mircea Eliade – un grande studioso rumeno di religioni e di simbologia, uomo di cultura vastissima e di straordinaria erudizione, un grande viaggiatore, che parlava e scriveva correntemente otto lingue – in uno dei suoi più celebri saggi: “Immagini e simboli”. A chi non ha grande dimestichezza con questi temi il simbolismo potrà apparire argomento da relegare a pochi addetti ai lavori ma se si ha il tempo di soffermarsi a riflettere spesso alcune opere d’arte, alcune architetture, ma anche elementi che appartengono al nostro orizzonte visivo quotidiano ci attraggono e ci invitano ad una più profonda “lettura” proprio perché portatori di significati più nascosti e suggestivi, di concetti che rimandano ad altre realtà, spesso ataviche, comunque lontane nel tempo, provenienti da contesti diversi dal presente in cui viviamo, spesso del tutto inaspettati. Il simbolismo infatti è il linguaggio iniziatico per eccellenza, un codice meno limitato del linguaggio comune ed adatto ad esprimere e rappresentare alcune verità che sono nascoste rispetto alla realtà visibile, razionale. Una citazione molto banale da cui poter iniziare un “viaggio” attraverso un contesto molto interessante di simboli, quelli relativi all’espressione del potere, appartiene al mondo dell’infanzia, ovvero il cartone animato di Walt Disney “Fantasia”. Nella celebre sequenza di “Topolino apprendista stregone”, appare Topolino in veste di mago con una bacchetta magica con la quale inizia a far accadere una serie di prodigi resi ancora più coinvolgenti dalla musica di Paul Dukas. Ebbene la bacchetta magica usata dai maghi – come il celebre Harry Potter – e dai prestigiatori, simile a quella del direttore d’orchestra verso la quale sono concentrati tutti i musicisti, non è altro che un simbolo antichissimo di potere, di comando e di autorità, di fallica memoria. La bacchetta dei maghi è il simbolo e il veicolo del loro potere e proprio attraverso la bacchetta il mago evoca gli spiriti e i demoni, agisce sulle cose, traccia il cerchio magico entro cui si colloca per compiere le sue azioni. Un’asta, all’inizio sicuramente di legno, successivamente impreziosita dall’oro e dalle pietre preziose, la ritroviamo saldamente nelle mani di faraoni, e poi di re e regine: essa assume in questa veste il nome di scettro e dà ai sudditi un chiaro segno di chi ha il potere. Ancora oggi si usa dire “comandare a bacchetta”, nel senso di dispoticamente. Nell’antica Grecia il tirso era una sorta di scettro intrecciato da foglie di edera avviluppate, tipico di Dioniso e dei suoi seguaci, satiri e baccanti. Con una bacchetta la maga Circe trasformava gli uomini in animali; nella Bibbia Mosè usa una verga per far scaturire acqua dalla roccia e per dividere le acque del Mar Rosso e fuggire dall’Egitto con il suo popolo. Un bastone particolare, il pastorale, è usato dal papa e dai vescovi cristiani durante le cerimonie solenni; si chiama così proprio perché ricorda quello usato dai pastori per controllare il gregge ed è ricurvo in alto per radunare i fedeli che si stanno smarrendo. Dall’alto Medioevo, se non prima, i papi si servirono della ferula pontificalis come insegna indicante la loro potestà temporale: la forma di quella ferula era un bastone che portava al suo vertice una croce. Anche i pellegrini che nel Medioevo percorrevano le strade d’Europa erano dotati di un bastone, chiamato bordone, usato come appoggio nei lunghi cammini che dovevano affrontare; esso aveva una punta di metallo ad una estremità che serviva all’occorrenza per difendersi dai lupi o dai briganti che si incontravano spesso lungo il percorso. Se si vuole andare indietro nel tempo sicuramente la bacchetta magica, il bastone del comando, lo scettro come simboli di potere vanno ricondotti al Caduceo di Mercurio, un elemento che riveste grandissima importanza in ambito operativo, uno dei simboli più antichi della storia dell’umanità, comune a civiltà diverse. Il caduceo, un bastone con due serpenti attorcigliati intorno, a volte con ali, era un simbolo del commercio ed era simbolo anche del dio greco Hermes (Ermete-Mercurio), dio anche della salute. Esso viene associato fin dall’antichità anche con il bastone di Asclepio-Esculapio, il dio della medicina: tale simbolo si ritrova ancora oggi come emblema dell’Ordine dei Farmacisti e viene quindi raffigurato in tutte le farmacie. Non va dimenticato che per i greci Farmacòn significava il veleno del serpente. In questo caso i due serpenti indicano le due forze opposte del bene e del male che cercano di far inclinare, simbolicamente, il caduceo da una parte o dall’altra. Ma il bastone che simboleggia appunto l’equilibrio e la conoscenza, governa le due forze opposte ristabilendo la guarigione, che non è altro, simbolicamente, che mediazione tra opposti. Il caduceo dunque simboleggia, in senso lato, l’enigma della complessità umana e delle sue infinite possibilità di sviluppo. Prima che a Hermes/Mercurio, il bastone era stato emblema di Ermete Trismegisto (trismegisto significa “tre volte saggio”), progenitore dell’arte magica egizia, e rappresentava la sintesi del sapere universale, dalla religione, alla medicina, alla morale, alla filosofia fino alle scienze e alla matematica. Dal nome di Ermete Trismegisto scaturisce il termine ermetismo per indicare la conoscenza iniziatica, il cui apprendimento richiede studio profondo e dedizione. Ed è proprio ad Ermete Trismegisto che si fa risalire l’origine dell’Alchimia, un altro contesto sapienziale, un altro incredibile mondo di simboli di straordinaria complessità e stratificazione. Quello dei simboli è, come appare evidente, un linguaggio che richiede, per essere compreso, tempo, dedizione, attenzione, curiosità, ma anche desiderio e volontà di percorrere idealmente non le solite strade battute ma quelle più impervie e nascoste, quelle capaci di condurre verso luoghi della conoscenza inaspettati e spesso magici. Nel suo testo “L’uomo e i suoi simboli”, Carl Gustav Jung scrive: “una parola o un’immagine è simbolica quando implica qualcosa che sta al di là del suo significato ovvio ed immediato. Essa possiede un aspetto più ampio, “inconscio” che non è mai definito con precisione o compiutamente spiegato. Né si può sperare di definirlo o spiegarlo. Quando la mente esplora il simbolo, essa viene portata in contatto con idee che stanno al di là delle capacità razionali.”











     Ermete Trismegisto					        Hermes, messaggero degli dei



























Esculapio (Asclepio per i Greci), copia romana del II sec. d.C. da originale 
greco del IV sec. a.C., Parigi, Museo del Louvre

Dittico del console Manlio Boezio, 487 d.C., avorio, Museo di Santa Giulia, Brescia

 

L'arcangelo Gabriele con la ferula, mosaico, Chiesa della Martorana, Palermo

 

Papa Francesco con la ferula realizzata da Lello Scorzelli

Casella di testo: Bill Viola e la stanza di Caterina
Roberta Bernabei









Bill Viola (New York, 1951) è uno dei più celebri artisti statunitensi, il maestro indiscusso della videoarte contemporanea e le due mostre monografiche a lui dedicate, quella organizzata a Roma al Palazzo delle Esposizioni nel 2009 e quella di Firenze, allestita a Palazzo Strozzi nel 2017, sono tra le più belle mostre organizzate recentemente in Italia. Viola con il nostro Paese ha un rapporto privilegiato, non solo perché il nonno paterno proveniva dalla provincia di Pavia, ma perché l’arte italiana rappresenta per Bill Viola una fonte di ispirazione che ha segnato l’evoluzione del suo linguaggio espressivo, incentrato sulla rappresentazione delle emozioni, delle passioni e delle sofferenze umane. Una delle installazioni video più celebri di Bill Viola, presente in entrambe le sedi espositive citate, è Catherine’s Room, un’opera del 2001 che nasce, come altre opere dell’artista, dallo studio e dalla riflessione sull’arte italiana rinascimentale. Nel 1974, a ventritrè anni, dopo la laurea alla Syracuse University di New York in Visual e Performing Arts, Viola trascorre due anni a Firenze, lavorando come direttore tecnico presso la casa di produzione video art/tapes/22, dove incontra e collabora con artisti come Vito Acconci, Mario Merz, Giulio Paolini, Jannis Kounellis. 
Il suo periodo italiano ha dato all’artista la possibilità di conoscere la storia dell’arte italiana e la sua collocazione, non solo in contesti museali, ma anche quotidiani, come l’interno di una chiesa o di un palazzo o la decorazione di una piazza. Nel 1977 trascorre un mese a Siena come cameramen per girare un documentario sulla città e le opere senesi, come i dipinti di Duccio di Buoninsegna, dei Lorenzetti, di Giovanni Di Paolo, di Taddeo di Bartolo, del Maestro dell’Osservanza, diventano fondamentali nella fase iniziale della sua formazione. Nel 1984 a Madrid, al Museo del Prado, scopre le opere fiamminghe e spagnole; nel 2001 torna in Toscana per studiare l’arte dal tardo Medioevo al Rinascimento. “Mi abbandonai a quei dipinti e questo schiuse un’enorme porta davanti a me…Mi resi conto che la tradizione dei maestri del passato era totalmente incentrata sul contenuto: forma e tecnica erano al suo servizio. Il fulcro erano le storie umane, la profondità interiore: la coscienza in definitiva….Ho guardato a loro come modelli per la mia concezione dell’immagine, costruendola grazie a un’esperienza lunga settecento anni” (in John Hanhardt, “Intervista a Bill Viola”, nel Catalogo della mostra Bill Viola. Rinascimento elettronico, Firenze, Palazzo Strozzi, 2017).
La videoinstallazione Catherine’s Room  è nata da questo rapporto empatico dell’artista con i dipinti del passato. L’opera è allestita orizzontalmente come un polittico a colori ed è composta da cinque schermi: sono numerosi i lavori di Bill Viola basati sul numero cinque perché questo numero ha un ruolo importante nella cultura orientale buddista e zen che Viola ha studiato approfonditamente durante i numerosi viaggi in Oriente e in particolar modo in Giappone. 



















Questa installazione è una riflessione e una citazione esplicita della “Santa Caterina da Siena fra quattro beate domenicane (Giovanna da Firenze, Vanna da Orvieto, Margherita da Città di Castello, Daniela da Orvieto) e scene delle loro vite” dipinta da Andrea di Bartolo (1394-1398 c., Venezia Gallerie del’Accademia). Questa tavola trecentesca ha una predella divisa in cinque scomparti, organizzata in un avvicendamento di riquadri, legati gli uni agli altri con scene narrative giustapposte, un formato del quale l’installazione di Viola è un diretto riferimento e una rivisitazione. Nei cinque schermi, luogo privilegiato di una narrazione sequenziale, scorre lenta la vita di Caterina, colta nell’intimità di una vita solitaria, raccontata insieme all’inesorabile scorrere del tempo. 



















Lo spettatore, immerso nello spazio buio della sala, attratto dalla luce e dalle azioni che scorrono sui cinque video, osserva l’intensa presenza della protagonista, che si muove nel suo spazio vitale, seguendo le diverse sequenze rappresentate, quasi in una scena teatrale, assistendo alla sacralizzazione di rituali quotidiani, dai ritmi sempre uguali. Man mano che si osserva questa stanza e i movimenti della protagonista si è attratti all’interno di quello spazio silenzioso ed evocativo e ci si accorge che mentre osserviamo lei, stiamo osservando noi stessi. La solitudine di Caterina è la nostra solitudine: quei cinque video rimandano un’immagine che è la nostra stessa vita nello scorrere dei giorni e delle stagioni. Il minimalismo rarefatto delle diverse scene, che ricorda le atmosfere e gli spazi silenziosi degli interni dipinti da Vermeer, esprime una dimensione solitaria contemporanea, vissuta, nella propria individualità. Una solitudine spirituale che non lascia indifferenti. In quei cinque video si vede lo scorrere impercettibile delle stagioni, dalla finestra, e lo scorrere delle ore, le attività della mattina, del pomeriggio, del tramonto, della sera e della notte. Le immagini ci avvolgono, l’osservazione diventa esperienza mistica: Bill Viola parla di verità universali e cerca, con i mezzi espressivi della modernità, una profondità trascendentale e spirituale, sollecitando un senso di compassione ed empatia che è presente, anche se spesso sopito, in ognuno di noi.