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Casella di testo: L’AUTORITRATTO COME SPECCHIO DI SE’
Roberta Bernabei 













							Autoritratti di Rembrandt 

Quel non luogo che è Facebook, un walled garden, come è stato definito, un’agora virtuale dove intessere relazioni di vario genere e spesso incrociare vite, offre interessantissimi spunti di riflessione su una moltitudine di argomenti, uno dei quali è certamente il modo attraverso cui ogni persona decide di celebrare se stessa, le modalità che si scelgono per presentarsi verso l’esterno, che già contengono moltissimi elementi di come si è e di come si vuole che gli altri ci percepiscano. L’immagine che si sceglie per la propria pagina di Facebook è già un indizio interessante dell’io: la maggior parte delle persone sceglie di solito fotografie in cui si è sorridenti, accattivanti, magari realizzate durante viaggi in luoghi pittoreschi o lontani, altri si raffigurano in momenti della loro giornata professionale, magari con un camice addosso se medici, o presa dal palcoscenico se si è attori, o mentre si parla ad una conferenza (e questo è abbastanza frequente per gli uomini), altri ancora danno di sé un’immagine volutamente non banale, bizzarra o seria, distaccata, o magari elaborando la fotografia con colori o con effetti grafici, alcuni optano per un’allusiva immagine di un animale nel quale si identificano, più o meno consciamente, altri ancora scelgono una rassicurante fotografia accanto al coniuge oppure abbracciati a un figlio, c’è poi chi, narcisisticamente, si raffigura sulla spiaggia, fiero della muscolatura accresciuta in estenuanti ore in palestra. E poi ci sono quelli che appartengono al gruppo degli “aniconici”: questi non si presentano con una propria fotografia ma con un simbolo, con un segno, con qualcosa che allude ad altre realtà derivanti dal mondo della politica, della grafica, dei fumetti, oppure scelgono particolari di quadri famosi oppure proprio non mettono nulla, non volendo apparire affatto. La declinazione autoreferenziale appare quindi del tutto variegata e offre ad ognuno la possibilità di elaborare la propria identità secondo il proprio modo di vedersi e quello che scegliamo per offrire un’immagine di noi agli altri. Queste stesse riflessioni sono state per secoli oggetto della pittura perché gli artisti, in particolar modo dal Rinascimento in poi, trovandosi soli di fronte a se stessi hanno spessissimo voluto rispondere ad un quesito che ognuno di noi si pone: “chi sono io?”, e l’autoritratto è divenuto così la proiezione oggettiva del modo in cui un artista ha ritenuto che gli altri lo vedessero e di come lui vedeva se stesso e il suo ruolo. In tutta la storia dell’arte, fino ad oggi, l’artista ha sentito il bisogno di rispondere a questa domanda e di dare una risposta alla profonda pulsione dell’autorappresentazione, illustrando con il proprio volto e il proprio corpo, con determinate espressioni e in pose particolari, il riflesso delle convenzioni, del gusto e dello zeitgeist della società e dell’epoca alle quali appartiene o è appartenuto. Gli autoritratti dunque, oltre all’intrinseco valore artistico, sono occasioni uniche e interessanti per conoscere le emozioni dell’artista come essere umano e il suo modo di percepire il suo ruolo nel mondo. E guardare all’arte per rispondere a certe domande che ognuno si pone appare pertinente perché l’esigenza dell’uomo all’autorappresentazione, il desiderio di lasciare un’immagine di sé, del proprio volto e del proprio corpo, trova proprio nell’artista il migliore interprete, perché lui più di ogni altro possiede gli strumenti per esprimere a livello universale sentimenti ed esigenze psichiche che appartengono ad ogni individuo. 












                                                            


                                                     Autoritratti di Vincent Van Gogh 
					              
L’autoritratto risponde perfettamente, come genere, al bisogno primario di esprimere la propria psichicità, la pulsione autobiografica si incarna e si realizza quindi nell’opera d’arte, mezzo attraverso il quale, quasi come un sortilegio, l’artista riesce a fermare lo scorrere incessante del tempo e degli accadimenti, oggettivizzandoli, cristallizzando l’attimo nel flusso di una vita. L’autoritratto è sempre desiderio di lasciare una testimonianza di sé, della propria esistenza, la risposta alla necessità di lasciare una traccia del proprio vissuto. Ci sono artisti che si sono ritratti decine di volte nel corso della loro vita, in dipinti che rappresentano un dialogo con l’io durato tutta la vita, tra  autocelebrazione e introspezione, come Rembrandt o Van Gogh o come Francis Bacon. 















                                                            Autoritratti di Francis Bacon 

Quest’ultimo, morto nel 1992, aveva affermato con sarcasmo nichilista: “Ho fatto molti autoritratti, è vero, perché attorno a me la gente è morta come mosche e non mi restava da dipingere nessun’altra persona. Io detesto il mio viso e ho fatto degli autoritratti per mancanza di modelli. Ma ora smetterò di fare autoritratti. Amo dipingere cose belle, perché amo una buona corporatura. Detesto il mio viso ma continuo a dipingerlo. E’ vero che…ogni giorno nello specchio vedo la morte al lavoro, è una delle cose più belle che ha detto Cocteau. Ce n’è tuttavia per tutti…”. Ma se per Bacon ritrarsi è un’esigenza psichica che appare orientata verso l’introspezione, raffigurare “un volto e insieme le pulsioni, gli istinti, i sogni che quel volto hanno modellato”, come ha affermato,  ci sono artisti titanici e travolgenti come Pablo Picasso che invece incarnano una creatività più solare e positiva. 
















                                                           Autoritratti di Pablo Picasso 


Kirk Varnedoe in un saggio sugli autoritratti del grande artista spagnolo scrive che in Picasso “l’autoritratto tendenzialmente non rientra nell’orizzonte dell’analisi introspettiva, dello scavo interiore, del bisogno ossessivo di studiarsi o, tanto meno, dell’angosciosa scoperta dell’altro in sé e quindi della perdita dell’identità. In Picasso c’è semmai il bisogno opposto di inventarsi, di riconoscersi, in sempre nuovo personaggi, insomma di diventare l’altro…lui vuole riconoscersi ed essere riconosciuto in questa molteplicità che non è frammentazione o lacerazione bensì moltiplicazione dell’Io…il che presuppone che al centro di tale processo psichico si trovi un Io plastico e molto ben strutturato”. L’autoritratto quindi rappresenta, in sintesi, un autobiografico prolungamento di sé, la risposta figurativa alla pulsione autobiografica, la riproduzione intenzionale della propria immagine, la risposta al bisogno dell’uomo di lasciare una traccia di sé che sopravviva nel tempo e che documenti i passaggi essenziali della sua esistenza, che nell’artista ha anche il significato più o meno esplicito, di scongiurare la morte.
Casella di testo: LA CATTURA DELLA WESTMORLAND, UN EPISODIO DEL GRAND TOUR
Roberta Bernabei























Il quadraro Giovanni Barbarossa, vissuto a Roma nella prima metà del Settecento, pittore di ridottissisma capacità, nella sua bottega a Piazza Santi Apostoli era solito ricevere sia alcuni dei protagonisti del collezionismo internazionale dell’epoca, come il cardinale Albani e il conte di Leicester - tramite il suo agente Matthew Brettingham - sia il ceto medio, la piccola e media borghesia, offrendo agli uni e agli altri, merce di livello diversificato sia nella qualità sia nel prezzo. Nella sua bottega, ubicata al piano terreno di Palazzo Colonna (la possibilità di poter disporre di tale spazio gli era stata data in quanto un suo avo, tale Giacomo Barbarossa, nel tardo Seicento era stato maestro di casa presso i principi Colonna), era possibile trovare numerose Madonne da “mezza testa”, ritratti del papa appena eletto e di santi canonizzati da poco, immagini destinate ad una devozione privata oppure richieste per rinnovare una chiesa o una sacrestia, ma era possibile trovare anche nature morte, marine, battaglie, vedute e paesaggi. Diverse erano le opere di modesto valore, acquistabili con pochi baiocchi o al massimo con uno scudo, ma Giovanni Barbarossa possedeva anche tele di maestri molto apprezzati come Gaspare Traversi e Andrea Locatelli destinate ad una clientela di livello superiore e di gusti più raffinati. Per rendere più persuasive le sue offerte commerciali il quadraro non esitava ad offrire rosolio e “vini forastieri” con cui accompagnava la descrizione della sua raccolta di pitture, prima di condurre il presunto cliente all’interno dell’appartamento retrostante la bottega dove esse erano ordinatamente raccolte per dimensione. A Roma nel corso del XVIII secolo era avvenuta un’evoluzione significativa del mercato dell’arte, delle sue modalità, della sua ampiezza, dei protagonisti che lo animavano e in particolar modo si assisteva ad un radicale mutamento di impostazione concettuale: dal collezionismo di statue, pitture, libri e anticaglie varie perseguito per diletto e “sollevamento dei begli ingegni” (Cristina De Benedictis: “Per la storia del collezionismo italiano. Fonti e documenti”, Firenze, 1995, pag.50), come modello etico, ostentazione del lusso, cosciente volontà di possesso, mezzo attraverso il quale trasmettere un malcelato anelito all’eternità proiettando il proprio nome nel futuro, sottesa espressione della larga disponibilità economica e intellettuale del proprietario, si era giunti alla definizione di quei parametri che definiscono incontrovertibilmente l’acquisto di opere d’arte come puro investimento, come risposta ad un’esigenza principalmente pratica e quindi soggetta a nuove regole e approcci. 






























Le botteghe degli artisti avevano subito col trascorrere del tempo significativi cambiamenti: da luoghi dedicati alla didattica e all’esecuzione di opere d’arte si trasformano in studioli, in Wunderkammer – che rivelano una marcata e precoce connotazione enciclopedica - per poi assumere il ruolo di veri e propri punti vendita dove esporre, accanto ad opere d’arte contemporanea e a modelli da poter replicare secondo il gusto del cliente, a dipinti di old master, sempre molto ricercati, a disegni e stampe, anche oggetti di natura antiquariale e copie di opere d’arte antica e moderna. Fin dal Seicento gli artisti, grazie alle loro competenze tecniche, avevano abbinato all’abituale attività consona al loro ruolo, anche quella di sensali, di commercianti, di consulenti per indirizzare il gusto della nuova borghesia dispensando consigli e indicazioni sia per dilettanti sia per collezionisti smaliziati e avvezzi al mercato e alle sue regole. Come avveniva nelle altre piazze europee, come nelle Fiandre e in Olanda dove le gilde locali imponevano precisi limiti al libero fluire delle transazioni, a Roma l’Accademia di San Luca operava un controllo sui quadrari e con gli “Statuti” pubblicati nel 1633 sotto l’auspicio di Urbano VIII, si imponevano una serie di restrizioni e direttive e l’obbligo per i mercanti di pagare una tassa annuale di dieci scudi. 























Tra i rivenditori di quadri apparivano, oltre ad artisti e a mercanti di professione, anche rigattieri, ambulanti, falegnami, indoratori, stuccatori, ricamatori, incisori, corniciai: è per questo motivo che quando Wolfgang Goethe giunse a Roma fece alcuni acquisti di opere d’arte classica dal proprio parrucchiere – che come secondo lavoro faceva probabilmente il tombarolo - considerando la cosa del tutto plausibile. Monsieur de Lalande nel suo scritto “Voyage d’un François en Italie, fait dans les Années 1765 et 1766”, (Venezia, 1769) sottolineava un’opinione molto diffusa all’epoca, ovvero che Roma nascondeva ovunque, accanto alle botteghe di mercanti d’arte professionisti, trafficanti improvvisati pronti a vendere ai forestieri una statua romana o delle monete antiche o dipinti di ogni genere di soggetto ed epoca.  Nel suo viaggio in Inghilterra nel 1753 il giovane principe romano Bartolomeo Corsini rimane stupito dal numero delle statue classiche conservate nelle dimore inglesi: “L’Inglesi da un certo tempo in qua si sono un poco più umanizzati…Abbiamo fatto un giro nella campagna e abbiamo veduto le delizie et le fabbriche veramente magnifiche di questi signori. Tutto quello che v’è di più bello e di più grande, altrove nelle città, qui è in campagna…in luoghi totalmente fuori strada e deserti”. (Paolo Coen: “Il mercato dei quadri a Roma nel diciottesimo secolo. La domanda, l’offerta e la circolazione delle opere in un grande centro artistico europeo”, Firenze, 2010, vol. I, pagg.230-231). 



























Un’interessante testimonianza sull’attrattiva del mercato romano e sulla tipologia delle opere d’arte acquistate dalla clientela inglese, una delle più assidue, proviene dalla cattura da parte dei francesi della nave inglese Westmorland di fronte alla costa spagnola, presso Malaga, il 7 gennaio 1779, in quanto nel mondo era in corso la Guerra d’Indipendenza Americana e la Francia, alleata delle colonie ribelli, depredava tutte le navi inglesi che le capitavano a tiro. La nave era salpata da Livorno e nel suo carico erano presenti, accanto a merci di vario tipo - tra le quali trentadue forme di parmigiano, ottantaquattro rotoli di «carta di Genova», cinque casse di seta nera di Bologna, medicinali vari, olio d’oliva, libri rari, fogli di musica, antiquariato, vasellame, curiosità - anche alcune casse di opere d’arte acquistate a Roma da commercianti e collezionisti tra i quali il Principe William duca di Gloucester ed Edimburgo, fratello di Giorgio III, Sir John Henderson, proprietario terriero scozzese e avvocato, Charles Howard decimo duca di Norfolk, il pittore scozzese Allan Ramsay, il diplomatico e mercante John Udny. Nonostante le proteste del capitano il primo ministro spagnolo, il Conte di Floridablanca, avvisò il re di Spagna Carlo III della preziosa merce trasportata della nave inglese che venne considerata immediatamente bottino di guerra. Il re acquistò segretamente il prezioso carico e molte delle opere d’arte giunsero così alla Real Academia de Bellas Artes de San Fernando a Madrid e in altri musei spagnoli, alimentando il nascente interesse della Spagna per l’arte e la cultura italiana. Nelle casse furono trovate stampe, tra le quali anche incisioni del Piranesi, disegni, fogli di musica e strumenti musicali, acquarelli, tra i quali alcune opere di Robert Cozens realizzate a Roma, gouaches, numerosi libri, circa sessanta dipinti, tra i quali copie dell’Aurora di Guido Reni e della Madonna della seggiola di Raffaello, tele di Pompeo Batoni, Anton Raphael Mengs, Carlo Maratti, Guido Reni e Guercino, circa quaranta sculture, ventitré  vasi in marmo romani e numerose altre copie di opere d’arte di celebrati pittori del passato. Il carico della nave era stato assicurato a Livorno dalla Lloyd’s di Londra quindi per la perdita di tutte queste preziose opere d’arte nel 1784 venne pagata dalla compagnia di assicurazioni la cifra di 100mila sterline. La Westmorland venne comunque rinominata e passò alla flotta spagnola per essere di nuovo catturata, tempo dopo, dagli Inglesi nel Mar dei Caraibi. A questo episodio della storia del collezionismo settecentesco l’Ashmolean Museum di Oxford ha dedicato nel 2012 un’ interessante mostra: “The English Prize: The Capture of the Westmorland, an Episode of the Grand Tour”.

Katharine Read, Gentlemen inglesi a Roma, 1750 c., olio su tela,

Yale Center for British Art, Paul Mellon Collection

Jacques Sablet, Nel negozio dell’antiquario, 1788, matita, tempera e inchiostro su carta, Collezione privata

Pieter van den Berge, Eugenio di Savoia nel negozio del mercante di quadri Zomer ad Amsterdam, 1708, penna, inchiostro, acquarello su carta, Rijksmuseum, Amsterdam

Peter Monamy, Nave inglese durante una battaglia, inizio del XVIII secolo, olio su tela, Metropolitan Museum of Art, New York

Pompeo Batoni, Ritratto di Francis Basset, Baron of Dunstanville,  1778, (a sinistra)

Pompeo Batoni, Ritratto di George Legge, Visconte di Lewisham, 1778,(a destra)

 

Questi due dipinti erano sulla Westmorland e in seguito alla cattura della nave vennero acquistati segretamente dal re di Spagna Carlo III. Oggi sono entrambi al Museo del Prado a Madrid.

Anche le opere, raffigurate qui di seguito, sono giunte in Spagna nello stesso modo. 

Anonimo, copia dell’Aurora di Guido Reni, 1770 c., gouache su carta, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid.

William Hamilton , Osservazioni sui Campi Flegrei, 1776, incisioni acquarellate, Biblioteca della Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid

John Robert Cozens,

Ariccia, 1777-78,

acquarello su carta,

Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid

Anonimo, Ritratto di giovane, 1777 c., Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid

Casella di testo: 24 GIUGNO: LA FESTA DI SAN GIOVANNI BATTISTA E I SUOI SIGNIFICATI ESOTERICI
Roberta Bernabei
Ancora oggi è possibile individuare in feste popolari e contadine antiche simbologie che riportano a riti lontanissimi che spesso la Chiesa Cristiana ha fatto fatica ad obliterare rendendoli comunque incompatibili con la solennità delle celebrazioni religiose. La notte di San Giovanni, che ricorda la nascita del Battista secondo il calendario cristiano, cade in un periodo particolare dell’anno solare e astronomico, il Solstizio d’estate (21-24 giugno), quando il sole è al suo apogeo, quel momento nel quale ha inizio la stagione estiva e il sole, con il suo potere rigenerante e fecondo, torna a dominare il cielo col suo calore. Una festa della luce quindi, di dominio sul buio e sulla morte che nelle campagne si celebra attendendo il sorgere del sole con falò accesi sulle colline e sui monti, poiché da sempre, con il fuoco, si mettono in fuga le tenebre e con esse gli spiriti maligni, le streghe e i demoni vaganti nel cielo. Nella notte magica attorno ai fuochi si danzava e si cantava per far dissolvere il male e per sconfiggere le tenebre. Il simbolismo connesso al culto di San Giovanni Battista è indissolubilmente legato a quello di Giovanni Evangelista che invece è festeggiato il 27 dicembre, data prossima al Solstizio d’inverno: una data certamente molto significativa per diverse religioni, infatti il 25 dicembre viene festeggiata la nascita di Gesù secondo la tradizione cristiana. Ma tale data venne stabilita convenzionalmente mutuandola dal Mitraismo in quanto i Vangeli non specificavano in modo esplicito una data precisa per tale avvenimento. La celebrazione del 25 dicembre, come commemorazione della nascita di Gesù Cristo viene attestata per la prima volta nel Cronografo romano del 354, redatto sotto papa Liberio, facendo riferimento ad un elenco di feste compilato originariamente nel 336. E questo per poter sostituire la festa del Sol Invictis (il Dies Natalis Solis Invicti), introdotta a Roma nel 274 dall’imperatore Aureliano: ancora oggi in Iran, luogo d’origine dello Zoroastrismo dal cui ambito sicuramente il Mitrasmo proviene, ha luogo la festa del fuoco, la vittoria della luce sulle tenebre, chiamata Chahārshanbe-Sūri nell’ultimo mercoledì di dicembre. I due San Giovanni rappresentano quindi i due solstizi e simbolicamente l’inizio e la fine del ciclo solare: San Giovanni Battista annunciò l’arrivo di Gesù, quindi l’inizio di una nuova era, mentre San Giovanni Evangelista, autore dell’Apocalisse, previde l’avvento del regno escatologico. La posizione della festività legata ai due Santi collocata alla data dei solstizi, conferisce loro dunque un doppio ruolo, spirituale e cosmologico ad un tempo: al Solstizio d’estate inizia il periodo discendente della luce e il Solstizio d’inverno segna invece l’inizio del periodo ascendente. I due san Giovanni, il cui culto si sovrappone e oblitera antichi culti solari legati a contesti molto lontani nel tempo, rappresentano i due solstizi, la nascita e la morte, la luce e il buio, il passato e l’avvenire. Non va dimenticato inoltre che mentre i Cavalieri Templari riconoscevano nel Battista il loro santo protettore, l’altro importante ordine cavalleresco medievale, quello dei Giovanniti, o Gerosolimitani, in seguito denominati Cavalieri di Rodi e poi di Malta, riconoscevano come santo protettore San Giovanni Evangelista: anch’essi mantenevano vivo in questo modo antichi e mai sopiti culti solari in tempi in cui tali riti avrebbero costituito certamente un’accusa immediata d’eresia e una successiva condanna a morte. 






















Baldovino II cede la sede del Tempio di Salomone a Hugues de Payns e Gaudefroy de Saint-Homer. Miniatura da Histoire d'Outre-Mer di Guglielmo di Tiro, XIII secolo, Biblioteca Nazionale di Parigi 


Tempo dopo, nel XVIII secolo, nella Massoneria speculativa si ritrovano – eredità dei Rosacroce – importanti analogie con tali culti. La Gran Loggia di Londra venne infatti costituita il 24 giugno del 1717 e le Costituzioni di Anderson furono approvate dalla stessa Gran Loggia il 24 giugno 1721. Secondo le Costituzioni del 1717 (art. XXII) la Gran Loggia doveva riunirsi ogni anno nel giorno di San Giovanni Battista e la festa annuale delle Logge di Londra, di Westminster e dei dintorni doveva essere tenuta ogni anno nel giorno di S. Giovanni Battista o di S. Giovanni Evangelista. Le Logge dei tre gradi simbolici sono dette di San Giovanni e i due Santi erano patroni delle Gilde muratorie in Germania e in Inghilterra. Relativamente ai solstizi, i due San Giovanni rappresentano “il dramma cosmico della morte e della rinascita del Sole che segna nel corso dell’anno l’avvicendarsi delle stagioni e del ciclo della vegetazione. 
Lo stesso avvicendarsi di vita e morte, di luce e tenebre, si svolge nel ciclo giornaliero. Osservando che ad ogni morte del Sole, della luce e della vegetazione segue la rinascita, l’uomo deduce che gli tocca la stessa sorte per il valore universale delle leggi cosmiche. In tal senso i Solstizi acquistano anche per l’uomo significati in riferimento al destino della anima oltre che al naturale perpetuarsi della vita sulla Terra”. 
Festeggiando San Giovanni, prima uno e poi l’altro, era quindi possibile nascondere la celebrazione del culto del Sole, nell’apogeo estivo e nel momento in cui d’inverno si trova nel punto più basso dell’orizzonte ma che rappresenta anche il primo giorno della sua ascesa nel cielo per riconquistarlo, come negli antichi culti pagani. Celebrando i solstizi queste Confraternite veneravano dunque Madre Natura e il Sole, come gli iniziati in ogni tempo. Furono i Rosa-Croce a lasciare alla Massoneria Speculativa, da essi immaginata e costituita sulle teorie delle remote istituzioni iniziatiche, il patronato dei due San Giovanni, tuttora invocati all’apertura dei lavori massonici, in quasi tutte le Logge del mondo. 
Adottando il patronato dei due Santi Giovanni Battista e Giovanni Apostolo, appare evidente che la scelta non fu solo di tipo religioso, ma anche pagano: i due patroni delle Logge massoniche si festeggiavano – e si festeggiano ancora oggi – al solstizio d’estate e quello d’inverno, e quindi in questo modo si teneva vivo il Culto Solare, fondamento di tutte le vecchie teogonie.